1 Doveva essere già notte. Una domenica di ottobre. Il silenzio aveva calato il sipario su una giornata delle solite. Agenda serrata, messe, attività, incontri. Forse c’era la luna ad allungare, oltre la linea dell’orizzonte, lo sguardo, il silenzio e il vuoto della solitudine. Di fronte, il mare e la sua distesa d’abbandono. Alle spalle, la piccola Tricase.
Lì, in quel punto preciso della sua finis terrae, dove l’Adriatico s’incontra con lo Ionio solo per riversarsi nel Mediterraneo, o ti senti la periferia estrema del continente oppure la porta più avanzata verso l’oriente. O fuori gioco o al centro di un altro gioco.
Non era ancora vescovo, don Tonino, quando scrisse questi versi, un po’ poesia un po’ preghiera. Solo giovane e sacerdote e dentro la scommessa che fede sia sinonimo di cambiamento non di rassegnazione. Di rassegnazione doveva averne incontrata parecchia quel giorno. “Dai a questi miei amici e fratelli/ la forza di osare di più./ La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo./ Il fremito di speranze nuove./ Il bisogno di sicurezze/ li ha inchiodati a un mondo vecchio, che si dissolve,/ così come hai inchiodato me su questo scoglio, stasera,/ col fardello pesante di tanti ricordi./ Dai a essi, Signore, la volontà decisa/ di rompere gli ormeggi./ Per liberarsi da soggezioni antiche e nuove./ La libertà è sempre una lacerazione!/ Non è dignitoso che, a furia di inchinarsi, si spezzino la schiena per chiedere un lavoro ‘sicuro’./ Non è giusto attendersi dall’alto le ‘certezze’/ del ventisette del mese./ Stimola in tutti, nei giovani in particolare,/ una creatività più fresca, una fantasia più liberante,/ e la gioia turbinosa dell’iniziativa/ che li ponga al riparo da ogni prostituzione”.
Don Tonino pacifista, nonviolento, poeta. Ma anche riformatore sociale. Del sud.
Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del mezzogiorno. Ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili (chi si ricorda di Pasolini?) dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano. La casa, la disoccupazione, il disagio, le criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la culture, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze.
È stato poco nei ranghi, specie da vescovo. Scende in piazza con gli operai, lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio, solidarizza con i profughi albanesi, s’indebita (se stesso, non la diocesi) fino all’ultimo capello per fondare comunità d’accoglienza, promuove petizioni per lo sviluppo civile e non militare del suo territorio, gira di notte nelle zone d’ombra della città raccogliendo ubriachi, matti e sbandati, litiga con gli amministratori, denuncia l’impianto clientelare delle politiche sociali, dinanzi all’omicidio del sindaco mette sul banco degli imputati le responsabilità collettive della città piuttosto che quelle soggettive del “mostro”. Un rompiscatole. Un vero rompiscatole.
Non semplicemente un abile creatore di rovesci e paradossi, con il gusto di rompere le uova delle consuetudini nel paniere delle contraddizioni, ma un’intelligenza appassionata che s’infila lucida nel cuore dei problemi. Il cambiamento del meridione passa per la testa dei meridionali. “Rompere gli ormeggi” evoca un movimento molto simile a quello del distacco, del viaggio, insomma dell’esodo. Dalla terra della soggezione e della dipendenza a quella dell’autonomia e della “creatività”. Pensarsi in grado di generare futuro, di tracciare con le proprie gambe una strada inedita e originale. Rielaborare con audacia la propria storia e la propria identità senza dissimularle sotto altre spoglie. Osservare il mondo a partire dal proprio punto di osservazione e non immaginando di essere altrove. Vedersi da sud non da nord, si direbbe oggi con le categorie del pensiero meridiano di Franco Cassano. Un sud dalla schiena dritta e non curva, con la testa in avanti e non rivolta all’indietro.
Certo Don Tonino vescovo non ha più di fronte il sud contadino e immobile di Dorso, Scotellaro e Salvemini. La sua Puglia è un mezzogiorno sospeso tra passato e futuro, tra immobilismi e dinamismi, tra conservazione e innovazione. Inoltre, nel tempo di cerniera che attraversa, la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il potere non ha più la forma beffarda, sfuggente e intangibile descritta da Sciascia ma al contrario appare precario e fragile.
Eppure molti nodi del sud non si sono ancora sciolti e don Tonino sperimenta sulla carne la tensione di questo stato di fragilità e potenzialità. Essere vescovo al sud è difficile. I problemi sono più complessi, profondi, aggrovigliati. I tempi sono lenti, i passaggi lunghi e contorti. La normalità confina strettamente con l’eccezionalità e, talvolta, invade l’eroismo. Così, se vuoi incidere, devi dotarti di pazienza storica, sguardo esteso e simboli efficaci. Don Tonino lo sa.
Di quella tradizione di cui era impastato, non è difficile distinguere in lui molte tracce comuni. Utopista, tormentato, irrequieto, certamente vulnerabile, perfino contraddittorio. È il modo specifico con cui si reagisce alla propria condizione di disadattamento, al sentirsi profondamente incarnato in una terra, amarla nelle viscere, portarsela nel sangue ma nel contempo soffrire il perimetro ristretto dei suoi limiti, avvertire il disagio delle sue insufficienze.
Ancora oggi, a dieci anni di distanza dalla morte, Don Tonino Bello è difficile da collocare. Troppe cose sfuggono agli stereotipi. Non solo la Cinquecento senza autista e l’episcopio senza anticamera, ma anche Gramsci, Pasolini, Bonhoeffer insieme a Moltmann e a Buber.
D’altronde è la sorte toccata anche alla millenaristica tradizione del Mezzogiorno, da Gioacchino da Fiore a Ignazio Silone, in cui l’atavica sete di giustizia non ha mai smesso di spingere la coscienza, spesso solitaria, oltre le strutture incompiute delle istituzioni e della politica. Forse ciò che don Tonino aggiunge a questa nobile tradizione è proprio la sua vicenda di vescovo, cioè il tentativo di conferire alla coscienza una natura collettiva, una dimensione comunitaria, di sradicarla dalla narcisistica consolazione del proprio destino per trasformarla nel polmone che soffia sul bisogno di cambiamento del suo popolo.
La tensione della coscienza liberatrice è stata da don Tonino ricondotta dentro le istituzioni non come inatteso ospite, ma come elemento originario e costitutivo, da cui la stessa struttura trae motivo di esistenza.
La naturalezza, con cui ha rimesso la struttura al servizio della coscienza, richiama per molti versi gli echi ormai lontani delle pagine di Silone dedicate a Celestino V. Anche don Tonino ha incessantemente ribadito, per dirla con Silone, che “Dio ha creato le anime non le istituzioni” ma non ha rinunciato alla sfida. Non si è dato per sconfitto.
Perfino la prova ultima della malattia, nella tensione profondissima del dolore, è stata trasformata in un’eccezionale occasione di grazia cui l’intero popolo ha preso parte.
Da un travagliato smarrimento, don Tonino scorge nella sofferenza il tempo vitale per riaffermare in modo autentico il senso della speranza. Con un’ansia intima di futuro e una fresca fiducia nella possibilità di riconciliarlo ancora con il presente.
Anche per questa ragione la voce di Don Tonino sarà apparsa così dissonante rispetto al coro. Eppure a un presente riconciliato con il futuro, la storia di oggi ancora ci spinge.
Guglielmo Minervini [aprile 2003]
Trascrizione online | A cura della Redazione dontoninobello.info
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- * Mosaico di pace, aprile 2003