Carissimo Saul, 1
«il potere logora chi non ce l’ha», l’ha detto un protagonista della politica nostrana. E verrebbe da credergli, vista l’inossidabile tenuta con cui ha resistito a tante intemperie di palazzo.
Più che a lui, però, io credo a te, o umanissimo simbolo di tutti coloro che soccombono, logorati da un compito che li sovrasta!
Anzi, mi sei simpatico proprio per questo.
Per la tua schiettezza, così disorganica alla logica vorace del potere. Per l’usura psicologica a cui non hai saputo resistere. Per la tua inettitudine strutturale a percorrere i labirinti della politica, nei cui grovigli ti sei smarrito. Per l’ingenuità con cui ti sei illuso che la carriera di corte avrebbe avuto per te meno triboli delle carreggiate campestri sulle quali inseguivi le asine di tuo padre. Per quell’antica anima di bifolco sospettoso che hai continuato a portarti dentro, nonostante l’ermellino regale che ti portavi addosso. Per quelle crisi depressive che ti facevano vedere rivali dappertutto: perfino in Davide, tuo genero, il quale cominciava a scalzarti dal cuore del popolo.
Lo so: ho toccato un brutto tasto. Ma fu questo il motivo che ti condusse all’esaurimento nervoso. Da quando, dopo l’uccisione del gigante filisteo, le donne vennero incontro al tuo esercito cantando: «Saul ne ha uccisi mille; Davide diecimila!» (1Sam 21,12), il tarlo dell’invidia ti entrò nelle ossa.
Quel canto ti ferì. Non chiudesti più occhio. E per te fu la fine.
Forse per questo mi desti pietà. Perché, a differenza di altri, mi sembri così vero, in preda a quei disturbi maniacali che non hai voluto mascherare. Perché non hai bluffato. E sei rimasto vittima del demone più inquieto che possa scuotere un uomo di potere: il demone della gelosia. Sei divenuto, insomma, parabola tragica di come il potere logora chi ce l’ha.
Chi sa quante volte, sui divani profumati della reggia, negli insonni meriggi d’estate, hai rimpianto i giorni della tua giovinezza, quando, odoroso di ginestre e di stalla, correvi libero come un puledro per le pianure di Efraim, e le ragazze ti venivano dietro perché «eri alto e bello, e non c’era nessuno più bello di te tra gli Israeliti» (1Sam 9,2).
Ora le ragazze andavano dietro a quell’altro. Anche il tuo Dio aveva ritirato da te i suoi favori. L’ebbrezza dei successi e l’estasi delle vittorie militari erano solo ricordi lontani. Ti sentivi uno straccio. Per esorcizzare l’imminenza del tramonto, cercasti conforto perfino nella magia, evocando lo spettro di Samuele che ti aveva consacrato primo re d’Israele. Ma ne rimanesti sconvolto. Ormai il tuo destino era segnato.
Carissimo Saul, sembrerà strano, ma tu mi fai simpatia proprio per questo fosco destino che non meritavi. Una simpatia antica che risale agli anni del liceo, quando il professore, leggendoci in classe la tragedia dell’Alfieri che porta il tuo nome, giunto al momento del tuo abbraccio suicida con la spada puntata per terra sulla montagna di Gelboe, si inteneriva per la tua fierezza: «Empia Filiste, almen mi troverai da re… qui morto»!
La lancia e la cetra
Ed eccoci a quelli che a me sembrano i simboli chiari del contrasto che ha sempre opposto i detentori del potere stabilizzato ai profeti del cambiamento: la lancia e la cetra.
C’è un versetto molto espressivo, ripetuto più volte nel libro di Samuele, che visibilizza plasticamente questa contrapposizione: «Un sovrumano spirito cattivo si impadronì di Saul. Egli stava in casa e teneva in mano la lancia, mentre Davide suonava la cetra» (1Sam 18,20).
Quello stare in casa con la lancia in pugno la dice lunga sul clima di sospetto che si era creato a corte.
Che tu, Saul, stringessi la lancia sui campi di battaglia non provoca meraviglia. Eri stato fatto re per questo: per guidare il popolo d’Israele nelle guerre contro i Filistei! Ma che la lancia te la portassi in casa, perfino a tavola e a letto, è uno di quei particolari che dà la misura della sindrome di lucida follia a cui ti aveva condotto la diffidenza.
Dovevi guardarti da tutti. Per te, il nemico più feroce non stava più sui campi di battaglia, ma si nascondeva nei meandri della corte. E la tua sagacia di condottiero dovevi sprecarla non tanto nel fiutare la polvere sollevata dai sandali di guerra, quanto nel subodorare le trame segrete che si ordivano all’interno del palazzo.
E così, di sospetto in sospetto, sei precipitato fino a toccare quei livelli di degrado politico a cui giunge il potere quando, invece che difendere il popolo, difende se stesso.
Oltretutto, ad eccitare la tua cupa ombrosità, quell’altro, Davide, si aggirava per i corridoi sempre con la cetra in mano! Avesse avuto una lancia anche lui, avresti potuto combatterlo ad armi pari, sicuro di vincere il duello. Ma che potevi fare contro uno munito di cetra? Spaccargliela in testa? Maledizione! Quel giovanotto era la tua rovina, proprio perché non usava i tuoi strumenti di lavoro! Contro Golia aveva rifiutato di vestire la tua corazza e di impugnare la tua spada: eppure, con una semplice fionda aveva steso a terra il gigante. Ora, stava stendendo a terra anche te con un altro tipo di armatura leggera: con la cetra. Con quel simbolo della nonviolenza attiva. Quattro note, pochi accordi, un arpeggio: e, dopo una iniziale distensione che ti placava per qualche momento, entravi subito in paranoia.
Caro Saul, nonostante tutto, mi sei simpatico per la tua rozza autenticità di contadino. Tu non eri cattivo: eri solo ingenuo. Capivi che il potere ti aveva logorato, che non avevi più nulla da dire, che alla lunga non si può fare politica senza genio. Ma, almeno, hai avuto l’onestà di non truccarti dietro apparenti sicurezze. In fondo, non era Davide a farti paura. Era la sua cetra: simbolo della novità, del cambiamento, della fantasia. Hai scagliato più volte la lancia contro il tuo giovane rivale: ma non era lui che volevi ammazzare, era la sua cetra che volevi distruggere.
Quel dannato strumento, più degli eserciti filistei, ti sgomentava fino alla follia: ed era impossibile frantumarlo con gli emblemi militari della violenza.
Il potere non è fatto per sfidare il tempo
Dunque, il potere logora chi ce l’ha.
Logora, perché non è fatto per sfidare il tempo.
L’arte sfida il tempo: la poesia, la musica, la cetra appunto. Ma il potere no: i regimi, i governi, la lancia insomma, sono effimeri. Si usurano presto. Non sono generi a lunga conservazione. Nascono con l’ipoteca incorporata della fine. Coprono solo un segmento di tempo: quanto basta per offrire un servizio.
Ma, terminato l’offertorio, si sfibrano: e sfibrano anche i titolari che si ostinano a mantenerli in vita con l’ossigeno.
Un potere, insomma, che si candida a sogni di eternità, sfocia inesorabilmente nella follia.
In fondo, il tuo errore non è stato quello di aver esercitato un potere, ma quello di non averne accettata la provvisorietà.
Appena avvertita l’irruzione sul firmamento politico di un nuovo astro che ti surclassava per genio e per freschezza, avresti dovuto abbandonare subito la corte e raggiungere il cortile: quello di casa tua. Alle prime note dell’arpa, cogliendo i segni dei tempi, avresti dovuto capire l’antifona del tuo ultimo salmo di gloria, e guadagnare in silenzio la pace della tua campagna. Il mestiere non ti mancava, e di fame non saresti morto. Invece, no! Eri persuaso che, dopo di te, non poteva esserci che il diluvio. Sicché, con la lancia perennemente in pugno, sei rimasto a proteggere i fantasmi del tuo antico prestigio. E hai fatto quella fine infelice.
Grazie, comunque, perché hai accettato di divenire monito ed emblema per quanti nella storia dimenticano che solo Dio ha un potere che non tramonta mai. Anche se, purtroppo, la tua lezione così paradigmatica non è servita a gran che. Il demone del potere, infatti, ossessiona ancora oggi una moltitudine di gente.
O Dio, finché ci si batte per raggiungere il potere, si rimane all’interno della dialettica di ogni crescita umana: si è invasati, per così dire, da un demone buono. Oltretutto, in questa fase ci si può sempre consolare che si è spinti dal bisogno di rendere un servizio agli altri.
La perversità nasce, invece, non quando ci si batte per ottenere il potere, ma quando si lotta disperatamente per conservarlo. Allora subentra il demone maligno. Compare lo stesso «sovrumano spirito cattivo», che un giorno si impadronì di te. Affiora il genio del male, che introduce nell’uomo di potere la logica della lancia, cioè la logica della guerra.
Perché, chi vince una guerra pensa che sia l’ultima, la definitiva, l’assoluta. Così chi conquista il potere: si arroga pretese di stabilità imperitura. E stenta perfino a capire che un tiranno, per quanto sanguinario, non potrà mai tagliare la testa del suo successore.
Tu, queste cose non le hai capite. Ma, poiché hai pagato l’ascolto della cetra con una schizofrenia che non hai voluto mascherare, di fronte alla tua tragedia mi inchino lo stesso.
Non mi inchino, invece, d fronte alla commedia di chi oggi, con la lancia in pugno e con i nervi apparentemente saldi, esibendo arroganti sicurezze, camuffa il suo delirio, e finge di non udire coloro che, già da tempo, hanno intonato i salteri della novità.
don Tonino, Vescovo
19 Gennaio 1992
Trascrizione online | A cura della Redazione dontoninobello.info
DTB Channel | Related | AUDIO VIDEO
Sistema Informativo & Antologia degli Scritti