VEGLIARE NELLA NOTTE… SCRUTANDO L’AURORA

Vi auguro, pertanto, che nelle vostre mani i dispositivi di legge si umanizzino, le rigide norme istituzionali si scaldino di passione, e i gelidi rigori del sabato si sciolgano sotto il fiato di un volto che soffre

Carissimi, […]  1

Per lasciarvi interpellare dalla Parola di Dio e per articolare un telaio di riflessioni valide per il vostro impegno di uomini politici, ho voluto scegliere una frase del Vangelo di Luca che mi sembra tagliata su misura per voi: «C’erano in quella regione dei pastori, che vegliavano di notte, facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8).

C’erano i pastori… […]

Intanto il pastore ha una vita nomade, perché deve spostarsi col suo gregge da un pascolo all’altro secondo il cambiamento delle stagioni.

Guida le pecore verso le steppe dove esse trovano l’erba e verso i pozzi dove, una volta al giorno, possono abbeverarsi per poi sdraiarsi serene. Le tiene unite. Le conduce al riparo quando c’è cattivo tempo e le difende contro gli animali da preda e contro i briganti.

Il pastore, comunque, oltre che guida, è soprattutto il compagno di viaggio che condivide l’esperienza di fatica, di pericolo, di veglia e di sonno, col suo gregge. C’è un passo bellissimo nella Genesi in cui Giacobbe dice a Labano: «Vent’anni ho passato con te: le tue pecore e le tue capre non hanno abortito… nessuna bestia sbranata ti ho portato…. Di giorno mi divorava il caldo e dì notte il gelo, e il sonno fuggiva dai miei occhi» (Gn 31, 38-40) […]

«Pastore». Questo titolo, che già nell’Antico Oriente veniva dato ai re (Hammurabi era chiamato pastore benefico e Omero designava i re come «poiménes laòn» cioè pastori di popoli), viene dato nella Bibbia oltre che ai re, anche ai capi del popolo, ai funzionari reali, agli anziani, ai giudici, a tutti coloro che hanno autorità.

È molto significativo che, il più delle volte, l’appellativo di pastore dato ai capi del popolo venga adoperato in un contesto di rimprovero.

Vi leggo un passo del profeta Ezechiele, che vi prego di ascoltare come ammonimento che il Signore oggi rivolge a ciascuno di voi. È un tratto del celebre capitolo trentaquattresimo, dipendente da un testo non meno celebre del capitolo ventitreesimo di Geremia.

«Dice il Signore Dio: guai ai pastori d’Israele, che pascolano se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse, e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese, e nessuno va in cerca di loro e se ne cura… » (Ez 34, 1-6).

A questo punto diventa fin troppo scoperto il mio gioco di volere usare questa griglia biblica per sottoporvi a un impietoso esame di coscienza, visto che, secondo la Parola di Dio, anche voi entrate nella categoria dei pastori.

Ma siccome non voglio essere banalmente ovvio e, d’altra parte, poiché intuisco che il passo di Ezechiele sui pastori che pascolano se stessi si commenta da solo, desidero mettermi umilmente accanto a ciascuno di voi, come amico che vi vuol bene, e dirvi semplicemente così:

Cari pastori, un giorno il Signore vi chiederà conto se lo spirito che ha animato il vostro impegno politico è stato quello del servizio o quello del self-service.

Capite che cosa significa tutto questo! «Fai strada ai poveri senza farti strada» scriveva don Milani al suo amico Fabbrini.

Ma quante volte voi date l’impressione che, se non proprio il calcolo personale, almeno quello di parte prevalga su quello della comunità! […]

Cari amici, io credo che le cose cambierebbero molto nelle nostre città se ognuno applicasse a sé le parole che Gesù attribuiva alla sua persona: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece… vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge… egli è un mercenario e non gli importa delle pecore» (Gv 10,12-13).

Coraggio!

Riconsiderate su questo archetipo biblico la vostra missione.

Riscoprite i volti. Usate tenerezza per gli agnelli appena nati e conducete pian piano le pecore madri. Non abbiate paura che vi accusino di parzialità se partite dai più deboli.

Sentite quel che diceva il sindaco Giorgio La Pira ai consiglieri comunali di Firenze il 24 settembre 1954:

«Voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: Signor Sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini)… È mio dovere fondamentale. Se c’è uno che soffre, io ho un dovere preciso: intervenire in tutti i modi, con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce, perché quella sofferenza sia o diminuita o lenita. Altra norma di condotta, per un sindaco in genere e per un sindaco cristiano in specie, non c’è».

Vegliavano nella notte

Vi confesso che mi ha a lungo bloccato la tentazione di presentarvi l’articolata simbologia biblica che soggiace ai concetti di veglia e di notte. Ma poi ho pensato che non era il caso di indugiare su queste notazioni esegetiche, abbastanza ovvie del resto.

Vi dico solo che vegliare sta a esprimere l’attenzione solerte, premurosa e carica di sollecitudine, soprattutto nei confronti delle persone, perché non abbiano a subire danni. Questa funzione di vigilanza viene attribuita ai capi in genere, ma a Dio in particolare: «Il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri, da ora e per sempre» (Sal 121, 8).

La notte, invece, nel simbolismo che essa racchiude, è una realtà ambivalente. Per un verso è il tempo in cui si svolge in modo privilegiato la storia della salvezza: dalla creazione all’esodo, fino alla seconda venuta del Cristo. Per un altro verso è il tempo delle opere tenebrose […]

Possiamo dire che vegliare nella notte per voi, uomini impegnati nella politica, significa sostanzialmente tre cose sapienza, speranza, transumanza.

L’audacia della sapienza

Sapienza vuol dire discernimento.

Capacità di disegnare la mappa delle esigenze di una comunità. Intuito nell’afferrare i bisogni meno evidenti. Abilità nel non lasciarsi irretire da coloro che, sapendo «organizzare la domanda», son capaci anche di prosciugare le risorse, a danno di quei poveri, ricchi di discrezione e di dignità.

Sapienza vuol dire senno nel selezionare i bisogni, organizzandoli secondo valori di campo lungo, nel tentativo di soddisfare quelli che sono più essenziali, senza cedere a lusinghe demagogiche.

Sapienza vuol dire capacità di intuire le cause strutturali che scatenano il disagio, producendo conflitti e povertà. Ma vuol dire anche non rassegnazione a inseguire istanze di piccolo cabotaggio, col rischio di mettere supinamente tra parentesi i processi perversi che trascendono il nostro piccolo mondo antico.

Sapienza vuol dire coraggio del paradosso, rifiuto della banalità, estro nel sostenere linee perdenti e anticonformiste, audacia nell’andare contro corrente quando si intuisce la verità. Mi vengono in mente le parole che Pier Celestino rivolge a Bonifacio VIII, in Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone: «Se il cristianesimo viene spogliato delle sue cosiddette assurdità per renderlo gradito al mondo, così com’è, e adattato all’esercizio del potere, cosa ne rimane? Voi sapete che la ragionevolezza, il buon senso, le virtù naturali esistevano già prima di Cristo, e si trovano anche ora presso i molti non cristiani. Che cosa Cristo ci ha portato in più? Appunto alcune apparenti assurdità. Ci ha detto: amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori: sono cose effimere, indegne di anime immortali…».

Scoprire la speranza

Ma «vegliare nella notte» significa anche speranza. «Donec dies elucescat». Finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei nostri cuori direbbe san Pietro (2Pt 1,19).

È vero che l’oscurità incombe col peso delle sue paure e con la minaccia di angosce mortali. È vero che questo tempo è forse caratterizzato da una interminabile notte polare, durante la quale, come un’immensa Valtellina, il nostro Paese sembra sprofondare sotto una inarrestabile frana morale. È vero che violenza e droga, clientelismo e corruzioni, scadimento di valori e imbarbarimento della vita danno l’impressione della ineluttabilità. Ma sarebbe davvero una tragedia se voi, operatori politici, doveste abbassare la guardia, tirare i remi in barca e fare da sponda alle lamentazioni che si levano sulla perversità del mondo.

Vi ho già detto che, nel linguaggio biblico, la notte è anche il tempo dei grandi avvenimenti della salvezza. E allora il vostro compito è quello di scrutare l’aurora, e al passante che chiede: Custos, guid de nocte? Sentinella, quanto resta della notte? (Is 21,12) voi possiate rispondere: c’è una schiarita verso il mattino!

Il coraggio di nuovi progetti

E che cosa è la transumanza? L’estrazione etimologica è fin troppo chiara perché non abbiate a riceverne stimoli e il vostro vegliare nella notte si vesta di significazioni profetiche.

Transumare deriva da trans e humus, e indica il passaggio da una terra all’altra, alla scoperta di pascoli nuovi.

Coraggio dell’esodo, quindi. Rifiuto della staticità sonnolenta. Abbandono di inerti moduli ripetitivi. Spirito di ricerca. Reazione alla tendenza di chiudere l’agire politico nella logica dell’autoriproduzione. Speditezza nel lasciare le vecchie staccionate, dove le ritualità ancestrali gratificano ma non fanno crescere.

Tutto questo comporta nei pastori notevoli capacità progettuali, esige la rinunzia alle declamazioni retoriche, pretende il sacrificio dello studio dei problemi, esclude la concezione dopolavoristica della politica intesa come hobby, e boccia senza appello chi si accosta all’amministrazione della cosa pubblica senza un minimo di fantasia e con una creatività compromessa dalla sclerosi.

Vegliare nella notte, perciò, comporta per voi politici l’obbligo primario, sacrosanto, di non assecondare i processi involutivi del popolo, e di non rendervi mai complici, per nessuna lusinga demagogica, della pigrizia ruminante del gregge.

Fare la guardia al gregge

Giunti a questo punto, non ci resta che imboccare la china delle suggestioni che l’inciso «fare la guardia al gregge» ci provoca nell’anima.

Io ve ne propongo tre.

Difendere dallo strapotere dei baronetti

La prima si riferisce allo strapotere di alcune pecore. Voi lo sapete: ci sono tanti problemi che il popolo vi propone (la casa, il lavoro, l’istruzione, la salute) e che voi dovete risolvere, privilegiando sempre la porzione più indifesa della vostra gente. Si ha l’impressione, però, che talvolta il timoniere della barca segua le rotte imposte dagli sceicchi locali, invece che dalla povera gente; e che le vele raccolgano solo i venti di chi ha più fiato in corpo, invece che il sospiro di chi boccheggia perché privo di tutto.

Abbiate il coraggio di opporvi pagando anche di persona quando nella distribuzione degli incarichi, nell’assegnazione di appalti di lavoro, nella progettazione di piani di fabbricazione, nella destinazione delle aree urbane, si tengono presenti gli interessi di chi sta bene e si calpestano i diritti primari di chi versa nella disperazione o, comunque, si scavalcano le esigenze della comunità.

Fare la guardia al gregge significa difendere le pecore non solo dai lupi che vengono da fuori, ma anche dai soprusi di chi bela più forte, o di chi incorna con maggiore violenza.

Il passo di Ezechiele, che abbiamo più sopra citato, «contro i pastori», prosegue con una terribile requisitoria contro montoni e capri, che rappresentano non più i governanti ma i cittadini più potenti e rapaci che, dopo aver mangiato e bevuto, calpestano l’erba che resta e intorbidano l’acqua degli altri, con lo stile strozzino di chi vuol prendere i poveri per la gola. «Non vi basta pascolare in buonepasture, volete calpestare con ipiedi il resto della vostra pastura. Non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidare con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidato. Ecco, io giudicherò tra pecora grassa e pecora magra. Poiché voi avete spinto con il fianco e con le spalle, e cozzato con le corna le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda» (Ez 34,18-22).

È una pagina che dovreste mandare a memoria e citare con fierezza ogni volta che le angherie dei baronetti del posto arrestano la crescita di una intera città.

Volete sentire come la pensava il sindaco La Pira? Ecco come si espresse nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà per sempre assicurata al nostro Paese».

La sindrome della litigiosità

La seconda suggestione si riferisce al dissidio dei pastori. Viviamo un tristissimo periodo in cui i sospetti reciproci rimandano sine die la soluzione dei più annosi problemi delle nostre città. Lunghe catene di cavilli procedurali e di diffidenze maligne, spesso orpellate con l’etichetta del metodo democratico, condannano il popolo all’immobilismo e ne arrestano il processo di emancipazione.

Estenuanti bracci di ferro, in cui la compiaciuta ostentazione muscolare della propria forza prevale sul legittimo desiderio di far passare progetti migliori, fiaccano le energie, azzerano l’impeto partecipativo e appiattiscono perfino i progetti più generosi.

La sindrome della litigiosità corporativa e della rivalità di schieramenti è diventata così acuta, che i suoi effetti si manifestano in una preoccupante paresi facciale delle nostre comunità.

Vien da chiedersi se i pastori facciano la guardia al gregge o stiano facendo la guardia a se stessi, controllandosi a vicenda e prendendo le contromisure l’uno dell’altro.

Miei carissimi amici, per il bene del nostro popolo, uscite da questi moduli osceni di un tornaconto che alla lunga non torna neppure in termini di foraggio.

Oltre tutto, il Signore è vindice dei suoi poveri: «Udite quindi, pastori, la parola del Signore. Dice il Signore Dio: eccorni contro i pastori, chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge; così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto» (Ez 34,10)

Troppa gente ama in astratto

La terza suggestione procurataci dai pastori che facevano la guardia al gregge si riferisce alla necessità di mettersi di fronte al «nudo volto» del fratello, personalizzato, conosciuto nella sua irripetibile fisionomia. Qualche volta, forse, correte il rischio di amare e servire in astratto. Ma di gente che ama e serve in astratto ce n’è tanta: perfino in chiesa!

Un augurio. Benedite la vostra città

Vi auguro, pertanto, che nelle vostre mani i dispositivi di legge si umanizzino, le rigide norme istituzionali si scaldino di passione, e i gelidi rigori del sabato si sciolgano sotto il fiato di un volto che soffre.

Benedite la vostra città. Tracciatele un segno di croce prima di addormentarvi la notte. Per chi crede sarà un’impetrazione di grazie; per chi non crede sarà una carezza dolcissima.

Questo gesto vi riscatterà dalle tante frustrazioni che, nel corso della giornata, l’impotenza di giungere a placare tutti i bisogni vi avrà fatto sperimentare. E quando toccherete con mano l’insufficienza della vostra fatica, affidatevi a Dio perché sia lui a custodire la città.

Amate senza riserve la gente che Dio vi ha affidato. A lui, prima che al partito, un giorno ne dovrete rendere conto. Ed è lui che voi servite, forse senza che neppure ve ne accorgiate, ogni volta che darete un bicchiere d’acqua fresca ad uno dei suoi fratelli più piccoli.

Ricordate quel celebre passo del testamento di don Lorenzo Milani, splendido quanto tutta la sua vita: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi… ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio. Vostro don Lorenzo».

don Tonino, Vescovo
18 dicembre 1987

 

 


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info


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  1. * Don Tonino Bello, VEGLIARE NELLA NOTTE, Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, pg 24-35, Edizioni S. Paolo, 1995 | * Don Tonino Bello, MISTICA ARTE, lettere sulla politica, pg 31-41, edizioni la meridiana, 2005