LA MIGLIORE DEFINIZIONE DEI POLITICI 1
Se uno mi chiedesse a bruciapelo: «Dammi una definizione di quel che dovrebbero essere i politici», io risponderei subito: «Operatori di pace».
Che cosa è la pace?
E’ un cumulo di beni. E’ la somma delle ricchezze più grandi di cui un popolo o un individuo possa godere.
Pace è giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza.
Pace è riconoscimento reciproco della dignità umana, rispetto, accettazione dell’alterità come dono.
Pace è rifiuto di quelle posizioni filosofiche del catastrofismo degli ultimi anni secondo cui «l’uomo non è più di moda» e va disormeggiato con tutta la sua storia.
Pace è temperie di solidarietà: solidarietà, che non è più uno dei tanti imperativi morali; ma è l’unico imperativo morale, che noi credenti chiamiamo anche comunione.
Pace è frutto di quella che oggi viene indicata come «etica del volto»: un volto da riscoprire, da contemplare, da provocare con la parola, da accarezzare.
Pace è vivere radicalmente il faccia a faccia con l’altro. Non il teschio a teschio. Vivere il faccia a faccia, non con gli occhi iniettati di sangue, ma con l’atteggiamento del disinteresse. Anzi, del dis-inter-esse, scritto di proposito in tre pezzi, come osserva Italo Mancini, per dire che nel movimento di fondo del faccia a faccia, indicato dal pezzo intermedio (inter), quello che io debbo fare è depotenziare (dis) la pretesa del mio essere (esse) a porsi come sovrano.
Pace, perciò, è «deporre l’io dalla sua sovranità, far posto all’altro e al suo indistruttibile volto, instaurare relazioni di parola, comunicazione, insegnamento: quello che categorie mistiche, che possono essere lette in senso etico, esprimevano con la parola abbandono e svuotamento. Prima ancora che fatto politico, la deposizione è un fatto di giustizia e di alta moralità» (Giannino Piana).
Pace, per usare un’immagine, è un’acqua che viene da lontano: l’unica in grado di dissetare la terra; l’unica capace di placare l’incoercibile bisogno di felicità sepolto nel nostro inquieto cuore di uomini.
Quest’acqua che in larga parte discende dal cielo e in minima parte deriva dalle risorse idriche della terra – ma anche queste, in ultima analisi, non provengono dall’alto? – si trova in un acquedotto. Si tratta ora di portarla a tutti.
Ed eccoci al ruolo degli operatori di pace, cioè i politici.
PORTARE OVUNQUE L’ACQUA DELLA PACE
Chi sono gli operatori di pace?
Sono i tecnici delle condutture; gli impiantisti delle reti idrauliche; gli esperti delle rubinetterie.
Sono coloro che, servendosi di tecniche diversificate, si studiano di portare l’acqua della pace nella fitta trama dello spazio e del tempo, in tutte le case degli uomini, nel tessuto sociale della città, nei luoghi dove la gente si aggrega e fioriscono le convivenze.
Qui è bene sottolineare una cosa.
L’acqua è una: quella della pace. Le tecniche di conduzione, invece, cioè le mediazioni politiche, sono diverse. E diverse sono anche le ditte appaltatrici delle condutture. Ed è giusto che sia così.
L’importante è che queste tecniche siano serie, intendano servire l’uomo e facciano giungere l’acqua agli utenti.
Senza inquinarla. Se lungo il percorso si introduce del veleno, non si serve la causa della pace.
Senza manipolarla. Se nell’acqua si inseriscono additivi chimici, magari a fin di bene, ma derivanti dalle proprie impostazioni ideologiche, non si serve la causa della pace.
Senza disperderla. Se lungo le tubature si aprono falle, per imperizia o per superficialità o per mancanza di studio o per difetti tecnici di fondo, non si serve la causa della pace.
Senza trattenerla. Se nei tecnici prevale il calcolo, e si costruiscono le condutture in modo tale che vengano favoriti interessi di parte, e l’acqua, invece che diventare bene di tutti, viene fatta ristagnare per l’irrigazione dei propri appezzamenti, non si serve la causa della pace.
Senza accaparrarsela. Se gli esperti delle condutture si ritengono loro i padroni dell’acqua e non i ministri, i depositari incensurabili di questo bene di cui essi devono sentirsi solo i canalizzatori, non si serve la causa della pace.
Senza farsela pagare. Se i titolari della rete idrica si servono delle loro strumentazioni per razionare astutamente le dosi e schiavizzare la gente prendendola per sete, non si serve la causa della pace.
Si serve la causa della pace quando l’impegno appassionato dei politici sarà rivolto a che le città vengano allagate di giustizia, le case siano sommerse da fiumi di rettitudine e le strade cedano sotto una alluvione di solidarietà, secondo quello splendido versetto del profeta Amos: «Fate in modo che il diritto scorra come acqua di sorgente, e la giustizia come un torrente sempre in piena» (Am 5,24).
SARANNO CHIAMATI FIGLI DI DIO
Giunti a questo punto, ci chiediamo: se la vocazione dei politici è quella di essere operatori di pace, cioè conduttori dell’acqua di pace, dall’acquedotto fino ai terminali più periferici della società, quali condizioni essi devono osservare per entrare nella categoria evangelica delle beatitudini ed essere, perciò, chiamati figli di Dio?
Anzitutto, la protesta.
Mi spiego. La politica utilizza sempre l’ideologia come strumento di analisi della realtà e come mezzo d’intervento su di essa. Ma guai se l’ideologia da strumento diventasse fine. Si cristallizzerebbe. Si porrebbe come assoluto totalizzante e, sul versante politico, sfocerebbe nel totalitarismo.
Di qui la necessità delle così dette «sporgenze utopiche » alle quali bisognerà fare sempre riferimento.
Di qui l’urgenza della contestazione permanente dell’ideologia, se non si vuol fare di essa un idolo.
Di qui il bisogno di usare del partito, ma sapendo andare oltre le indicazioni e le logiche del partito, se no diventa un idolo anch’esso.
In secondo luogo, il bene comune. Che deve rimanere sempre il fine ultimo della politica.
Questo significa due cose. Anzitutto, rifiutare la politica come gestione della cosa pubblica per il bene di una parte, di una corporazione, di un gruppo di potere o di pressione. «I partiti devono promuovere ciò che, a loro parere, è richiesto dal bene comune; mai, però, è lecito anteporre il proprio interesse al bene comune» (Gaudium et Spes, 75).
E poi significa mettere al centro la persona, adottandola come misura di ogni impegno; come principio architettonico di ogni scelta; come criterio assiologico supremo. La persona, non il calcolo di parte. La persona, non le astuzie di potere. La persona, non le mosse egemoniche. La persona, non il prestigio delle fazioni.
Infine, la «contempl-attività».
Perdonate il gioco barbaro dei termini, con cui si vuol dire che ogni dinamismo espresso nella prassi deve partire dalla contemplazione.
È necessario che gli uomini impegnati in politica, quale che sia il loro credo religioso, siano dei contempl-attivi; diano spazio al silenzio e all’invocazione; non si lascino distruggere la vita dalla dimensione faccendiera; non si sperperino nella dissolvenza delle manovre di contenimento o di conquista.
«Siamo all’alba del terzo millennio – scrive Giorgio La Pira – e, come all’alba del secondo, vanno a fiorire di nuovo, come allora, i mistici e gli artisti».
Io penso che i politici, se vogliono essere onesti col mondo che intendono servire, devono essere mistici e artisti nello stesso tempo. «L’immaginazione al potere» scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti del ’68. E qualche anno dopo, Paolo VI, nella Octogesima Adveniens, affermava: «In nessuna altra epoca l’appello all’immaginazione sociale è stato così esplicito come nella nostra. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche».
* * *
POLITICA: ARTE NOBILE E DIFFICILE 2
Vorrei qui spendere una parola per darvi un po’ di coraggio.
Oggi il vostro mestiere è fra i più ingrati e incompresi. Quando si parla di voi la gente corruga la fronte, ricorre alla battuta convenzionale, si sente autorizzata dal tacito consenso generale ad avanzare giudizi pesanti e, bene che vada, l’aggettivo più innocuo che oppone alla parola «politica» è quello di «sporca». Anche in questi giorni, qualcuno che aveva saputo dell’incontro speciale di oggi, incontrandomi, l’unica cosa che mi ha detto è stata: «Cóntagliene quattro a tutti».
È segno che c’è un diffuso scetticismo sulla gratuità del vostro impegno, o sulla serietà della vostra missione, o sull’autenticità del vostro carisma.
La gente con voi o è ossessivamente cortigiana, strisciandovi davanti con le forme del lecchinaggio più vile, o vi disprezza dall’alto della sua sufficienza, indicandovi come i capri espiatori di ogni malessere sociale, anche il più ineluttabile.
I puritani vi scansano con ostentazione, dichiarando che non vogliono contaminarsi le mani con voi. Gli amici vi chiedono, con scoraggianti sorrisi, chi mai «ve lo fa fare». I parenti vi ripetono che fareste meglio a pensare un po’ più alla famiglia. I preti parlano di voi con tanti sottintesi misteriosi, che dal loro linguaggio traspaiono centomila riserve. Il vescovo sembra che si faccia un sacco di problemi se deve apparire in pubblico con voi. Forse gli stessi che, per salvaguardare un look di verginità, in pubblico vi scansano, vi blandiscono vigliaccamente in privato quando hanno bisogno del vostro appoggio. Per i credenti, anche gli amici di fede prendono le distanze, e sempre più di rado una parola di speranza parte dalla loro bocca. Raramente il coro che accompagna il vostro cammino è un coro di osanna. Il fischio fa inesorabilmente capolino anche nelle assemblee dei compagni di cordata.
Per dieci applausi, venti contestazioni. Per cento consensi, duecento proteste.
Anche quando vi siete prodigati con la generosità più pura, vi sentite al centro di una nebulosa di sospetti. Anche quando vi siete spesi senza parsimonia e avete pagato prezzi altissimi di tempo, di fatica mentale e forse anche di denaro, siete costretti a difendervi dalle aggressioni della critica mordace, dalla perfidia dell’ironia subdola, dal distorcimento operato perfino sulle vostre intenzioni più pulite, dal livore di parte o dalla strumentale manipolazione degli avversari.
Non c’è che dire. La vostra, oggi, è davvero una vita scomoda.
Ebbene, miei cari amici, che forse siete attraversati sempre più di frequente dalla tentazione di lasciare tutto e ritirarvi dalla mischia: oggi voglio dirvi una parola di speranza e di incoraggiamento.
La parola di incoraggiamento la traggo da uno spunto felicissimo della Octogesima Adveniens di Paolo VI, che dice così: «La politica è una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (n. 46).
Sì, oggi parliamo tanto di servizio, di ministerialità (da minus-stare), di impegno per gli altri, di volontariato. Ricordatevi che una delle forme più esigenti, più crocifisse e più organiche dell’esercizio della carità è l’impegno politico.
La parola di speranza la traggo da un passaggio splendido della Gaudium et Spes che parla della politica come «arte nobile e difficile».
Anzitutto, ARTE.
Il che significa che chi la pratica deve essere un artista. Un uomo di genio. Una persona di fantasia. Disposta sempre meno alle costrizioni della logica di partito e sempre più all’invenzione creativa che gli viene richiesta dalla irripetibilità della persona.
Arte, cioè programma, progetto, apprendimento, tirocinio, studio.
È un delitto lasciare la politica agli avventurieri. È un sacrilegio relegarla nelle mani di incompetenti che non studiano le leggi, che non vanno in fondo ai problemi, che snobbano le fatiche metodologiche della ricerca e magari pensano di salvarsi con il buon cuore senza adoperare il buon cervello. È un tradimento pensare che l’istruzione possa supplire la tecnica e che il carisma possa soppiantare le regole interne di un mestiere complesso.
In secondo luogo, ARTE NOBILE.
Nobile perché legata al mistico rigore di alte idealità. Nobile perché emergente da incoercibili esigenze di progresso, di pace, di giustizia, di libertà. Nobile perché ha come fine il riconoscimento della dignità della persona umana, nella sua dimensione individuale e comunitaria.
In terzo luogo, ARTE NOBILE E DIFFICILE.
Difficile, perché le sue regole non sono assolute e imperiose. Sicché, proprio per evitare i pericoli dell’ideologia, vanno rimesse continuamente in discussione.
Difficile, perché postula il riconoscimento di tecniche concorrenziali che si ispirano a ideologie diverse da quelle della propria matrice culturale.
Difficile, perché esige il saper vivere nella conflittualità dei partiti, contemperando il rispetto e la lotta, l’accoglimento e il rifiuto, la convergenza e la divaricazione.
Difficile, perché richiede, nei credenti in modo particolare, la presa di coscienza della autonomia della politica da ogni ipoteca confessionale, e il riconoscimento della sua laicità e della sua mondanità.
Difficile, perché significa sottrarsi alla tentazione, sempre in agguato, dell’integrismo.
Difficile, perché significa affermare, pur nell’ambito della comunità cristiana, un pluralismo di opzioni: anche se questo non significa che tutte si equivalgano o che siano tutte efficaci e significative.
ARTE DIFFICILE PER IL CREDENTE SOPRATTUTTO
«L’integrismo e il conseguente non rispetto della diversità delle scelte politiche dei credenti sono – scrive Giannino Piana – il risultato della tentazione di ridurre il messaggio cristiano a una ideologia sociale o a un progetto politico concreto, o addirittura di fare della comunità cristiana una comunità sociologica che, come tale, si impegna direttamente nella storia ad elaborare soluzioni tecniche per la liberazione umana, ponendosi in alternativa con altri gruppi o movimenti storici».
Arte difficile, per il credente soprattutto, il quale «deve essere consapevole che il Vangelo non è una metodica di emancipazione e che la povertà e la sofferenza non sono soltanto un oggetto da eliminare, bensì una realtà di cui farsi carico come il Servo sofferente. In questo senso la testimonianza politica del cristiano deve diventare vita con i poveri, per un cammino di redenzione radicale» (Giannino Piana).
Arte difficile, per il credente soprattutto, che ha il compito, più che di menar vanto della sua ispirazione cristiana, di trovare quelle mediazioni culturali che rendono credibile il suo impegno politico.
Sentite che cosa scriveva Alcide De Gasperi nell’agosto del 1954: «Quello che ci dobbiamo soprattutto trasmettere l’un l’altro è il senso del servizio del prossimo, come ce lo ha indicato il Signore, tradotto e attuato nelle forme più larghe della solidarietà umana, senza menar vanto dell’ispirazione profonda che ci muove e in modo che l’eloquenza dei fatti tradisca la sorgente del nostro umanitarismo e della nostra socialità».
È proprio vero. La politica è arte difficile e nobile. Coraggio, dunque, amici.
NECESSITA’ DI UNA REVISIONE CRISTIANA
E ora, una manciata di provocazioni.
Prendo lo spunto da alcuni versi di Pierpaolo Pasolini, tratti da Le ceneri di Gramsci. Pasolini si rivolge ai compagni di partito che si sono inariditi; nei quali, come egli dice, «il mistico rigore di una azione non fu sempre pari all’idea».
Sentite: sono considerazioni che valgono per tutti; sono rimproveri che non risparmiano nessuno di noi qui presenti.
«… vi siete assuefatti
voi, servi della giustizia, leve
della speranza, ai necessari atti
che umiliano il cuore e la coscienza.
Al voluto tacere, al calcolato
parlare, al denigrare senza
odio, all’assaltare senza amore;
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia del clamore.
Avete, accecati dal fare,
servito il popolo non nel suo cuore
ma nella sua bandiera: dimentichi
che deve in ogni istituzione
sanguinare, perché non torni mito,
continuo il dolore della creazione».
Sono colpi di frusta, sulla cui onda potremo proseguire all’infinito.
SE PROVASSIMO A DOMANDARCI…
– Qual è lo spessore della protesta (nella nostra vita politica) nei confronti della ideologia, nei confronti del partito, nei confronti delle direttive pianificate?
– Quale spazio ha la persona nei nostri impianti? Quale rispetto abbiamo del bene comune e della sua indiscussa sovranità su tutte le altre visioni, comprese anche l’affermazione e l’avanzata del proprio partito?
– Ci rendiamo conto che i rallentamenti delle nostre (quattro) città sono dovuti ai calcoli di scuderia, alla prevalenza degli interessi di parte sull’interesse della gente, alle meschine strumentalizzazioni dello scontento popolare che può tornar comodo domani ai nostri progetti partigiani?
– Chi stiamo servendo: il bene comune o la carriera? Il popolo o lo stemma? 11 municipio o la sezione? Il tricolore o la bandiera del partito?
– A chi facciamo pagare l’estratto conto dei nostri ritardi? La bolletta dei nostri sterili blateramenti? Le cambiali, purtroppo spesso rinnovate, di una fiducia sistematicamente tradita?
– Quale rispetto abbiamo per i poveri? Quanta indifferenza nutriamo per la loro rabbia impotente? Quale forza d’urto sulla nostra anima si sprigiona dalle sofferenze degli ultimi? Dalla disoccupazione imperante? Dalla mancanza di case? Dalla miseria morale in cui versa tanta gente? Dal degrado e dall’avvilimento delle sterminate forze di devianza che proliferano nelle nostre comunità?
– Non ci dice nulla il giudizio della storia che coincide sempre col giudizio che i poveri danno di noi?
– Siamo disposti a pagare prezzi da capogiro, e a rimettere anche prestigio e carriera e poltrona e «brillante avvenire», pur di perseguire a ogni costo il bene comune?
– Quali patteggiamenti a scredito della giustizia; quali violenze a scapito della libertà; quali subdole perfidie contro gli indifesi; quali accordi disonesti sotto traccia a vilipendio dell’onestà ci vedono…?
– Siamo convinti che le «grandi» voci, quelle autentiche, quelle dei poveri, quelle degli sconfitti, quelle di coloro che rimangono sempre indietro, possono essere ascoltate solo nel silenzio, nella riflessione prolungata, nello spazio contemplativo che sapremo resecare sul panno lacerato delle nostre febbrili attività?
+ don Tonino, Vescovo, 19 gennaio 1986
Trascrizione online | A cura della Redazione dontoninobello.info
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