Chiesa di parte, Chiesa dei poveri (a cura di Vito Cassiano)

1 Mi sono recato ad Alessano, dove don Tonino si trovava per un breve periodo di convalescenza. Mi ha raccolto, come è sua consuetudine, con grande disponibilità e apertura, accettando di rispondere alle domande che a nome della nostra rivista ero incaricato di porre. La conversazione è stata lunga, interrotta spesso dalle continue visite che riceveva. Abbiamo parlato di molte cose riguardanti la sua esperienza episcopale, il suo incarico di presidente nazionale della Pax Christi, della realtà della Chiesa, della necessità di una chiesa più fedele al Vangelo e alla sapienza della croce. Significativa in questa conversazione è la ecclesiologia che alimenta e motiva la sua azione apostolica e la spiritualità francescana che lo ispira. La chiesa è segno di una realtà che viene dall’alto, ma è anche espressone massima di una santità che emerge dal basso, in quanto il mondo è anche il luogo in cui dimora lo spirito di Dio, in cui si manifesta la santità della vita. Ma lasciamo a lui la parola.

* * *

Trenta ottobre 1982, la comunità ecclesiale è riunita in piazza Vittorio Emanuele di Tricase per festeggiare e lodare il Signore, perché un suo figlio viene elevato al ministero episcopale. Sono trascorsi dieci anni da quel giorno così vivo nella memoria di tutti noi. Qual è stata l’esperienza più significativa di questi dieci anni?

E’ stato il mio entrare nella profondità del vissuto popolare, per cui, adesso con uno sguardo retrospettivo, reso forse anche più limpido dallo stato di sofferenza in cui mi trovo, mi accorgo di aver vissuto con estrema intensità questo periodo della mia vita; come se avessi concentrato in questi anni il vissuto di tutto il mio passato. Ho sperimentato una grande passione per il popolo. Mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente. Introdurre nel grande episcopio di Molfetta la gente che era diseredata, senza casa, povera, non per smania di esibizionismo, perché capisco bene che in queste cose spunta anche la velleità del protagonismo, è stato, perché mi sentivo a mio agio, mi sentivo più in sintonia col mio ministero e, per questo, in questi dieci anni ho provato la dolcezza ineffabile di trasmettere il massaggio del Signore, il Vangelo, alla gente umile, povera, non tanto con le parole, quanto con i gesti.

Le è servita l’esperienza vissuta nella chiesa natia per l’attuazione del suo ministero episcopale?

Moltissimo. Ripensando al passato, a quegli anni che, mentre li vivevo, qualcuno li giudicava sterili, improduttivi, per lo meno impegnabili in termini più efficienti, mi accorgo quanto mi sia servita l’esperienza di responsabile del seminario.

Ad Ugento sono stato ventidue anni a lavorare nel seminario. In questi anni m’interessavo anche di tanti problemi attinenti alla pastorale diocesana: dell’associazione cattolica, della pastorale catechistica, liturgica. Andavo a parlare di qua e di là. Naturalmente mi preparavo; dovevo studiare. Il ruolo che esercitavo in quegli anni mi impegnava nell’approfondimento delle nuove tematiche bibliche e teologiche, che io poi ho cercato di trasmettere alla comunità e di ricevere da essa, in una sorta di itinerario fatto insieme.

Avvenivano allora delle crescite sincronizzate. Per me quegli anni sono stati molto fecondi. La vicinanza prima con Mons. Ruotolo, poi con Mons. Mincuzzi, mi ha dato moltissimo. Poi c’è stata l’esperienza pastorale vissuta direttamente nelle comunità parrocchiali, a Ugento due anni e poi a Tricase. Avevo una grande paura di non riuscire ad esprimere uno spessore pastorale valido in questa nuova esperienza, in termini concreti, in termini di ferialità. Anche gli altri sacerdoti della diocesi con molto affetto mi dicevano: “tu sei un teorico, sei un teorizzatore”; perché venivo dal seminario, dalla curia. Però andando in parrocchia mi sono accorto, con un po’ di dispiacere, che se mi avessero fatto parroco prima, sarebbe stato più bello per me, perché nessuna esperienza, credo neppure quella di vescovo, è così carica di solidarietà inespressa come l’esperienza del parroco, perché il parroco viene a contatto con i ragazzi, con gli anziani, con i catechisti, con gli ammalati, con chi si sposa, con chi soffre; cioè il parroco riassume con una densità e concentrazione unica tutta la gamma della vita pastorale.

È stato utile per lei questo passaggio, anche se breve, attraverso l’esperienza parrocchiale diretta?

Sì! Credo che per uno che debba diventare vescovo, è fondamentale l’esperienza della comunità parrocchiale, senza della quale è molto difficile che un vescovo comprenda i bisogni più elementari della gente, è molto difficile che adegui anche il suo linguaggio.

Per me è stata molto importante l’esperienza parrocchiale, particolarmente quella di Tricase. Sono stato fortunato, andando a Trifase, di poter fruire dell’esperienza collaterale e sintonizzata dei parroci del luogo, d, Donato, d. Eugenio, d. Antonio Ingletto. Praticamente i primi passi li hi vissuti su un modulo già scritto da altri, in modo particolare da d. Donato, particolarmente per quanto riguarda la pratica pastorale.

E’ sembrato a noi che proprio durante il periodo di Tricase la sua predicazione fosse più sostanziata di elementi esistenziali. Lei era il teologo della nostra diocesi. Schiere di laici, oltre che di seminaristi, hanno attinto, nella loro crescita spirituale, al suo insegnamento. Lei c’insegnò la lezione del Concilio. Mi è sembrato che quel periodo in cui era parroco a Tricase lei abbia scoperto quel filone nuovo della teologia che è  la teologia della liberazione, di cui in questi anni si è fatto assertore convinto più che con le parole, con i gesti.

Sì! Sperimentai più da vicino il significato ed il valore di una chiesa che è al servizio dell’umanità. Quando ti trovi di fronte a tanta gente con il respiro grave, pesante, che fatica tutti i giorni; quando tu ti trovi anche a dover amministrare i beni della chiesa e, quindi, a doverti introdurre nelle pratiche burocratiche; quando, soprattutto, sperimenti la gioia di una casa in cui sboccia una vita o la tristezza di quella in cui una vita tragicamente si spegne; quando sperimenti la bellezza e la trepidazione di due giovani che si preparano al matrimonio; quando vedi esplodere una chiesa gremita di ragazzi, di tanta gente nella dolcezza del canto; allora, è chiaro, fai subito una mediazione tra la teologia che hai studiato e il vissuto concreto. Per cui, per me (non so se sono poi riuscito) quegli anni della parrocchia sono serviti anche per calibrare il linguaggio, renderlo più duttile, meno pesante, meno difficile. Mi sono reso conto di tante cose. Credo che l’esperienza parrocchiale sia per un vescovo come un passaggio obbligato.

In tutti questi anni la sua missione, diciamo così, ad extra ha avuto una rilevanza e una preponderanza rispetto alla sua attività intra. E’ vera questa impressione che questo sbilanciamento ha sfavorito un po’ il governo della diocesi?

Non mi sono mai sentito fuori dalla mia diocesi. In questi anni ho viaggiato moltissimo in tutte le parti del mondo e in tantissime zone d’Italia. Si può dire che l’Italia l’ho girata tutta. Credo che non ci sia diocesi in cui non sia andato a parlare condotto proprio da questo compito che mi era stato affidato quale presidente nazionale della Pax Christi; e, naturalmente, venivo invitato a parlare degli ultimi, dei marocchini, degli albanesi, dei terzomondiali, del mondo diseredato, degli emarginati. Moltissime Caritas diocesane mi hanno chiamato a parlare. In questi dieci anni, e di questo me ne rammarico un po’, non ho preso mai le ferie. Sono venuto a casa solo il ferragosto e per il resto un giorno o due a Natale. Ma tutta questa attività non mi ha mai impedito di interessarmi della mia diocesi. Poi, bisogna considerare che un vescovo, è vescovo di tutta la chiesa. Guai se il vescovo si restringesse nel perimetro della propria diocesi, si lasciasse come ingessare dagli interessi strettamente diocesani! Questo me lo hanno riconosciuto anche i molfettesi, adesso che si è celebrato il decimo anniversario. Questa mia missione diciamo così ad extra ha comportato anche un arricchimento nella nostra diocesi di Molfetta, perché io non sono andato, uscito fuori per dare soltanto, ma ho anche riempito le bisacce di tanti doni spirituali, di tante esperienze che ho vissuto ovunque; per esempio questo senso dell’apertura, dell’universalità, gli orizzonti planetari da contemplare, per non lasciarsi davvero chiudere nelle piccole cose. Questo giova moltissimo, soprattutto a diocesi come la nostra meridionale, che soffrono un po’ d’asfissia pastorale. Credo che l’aver dato questo contributo sia stata una cosa molto importante. Quindi tra il dare e l’avere penso per lo meno ci sia un pareggio.

Quali resistenze ancora impediscono nelle nostre comunità un’acquisizione più piena e radicale del compito della “nuova evangelizzazione”?

Si stanno facendo dei grossi sforzi, io credo, soprattutto nel mondo del laicato. Credo che oggi in tutte le diocesi ci siano dei laici che introducono nel corpo della comunità diocesana stimoli al rinnovamento; laici, anche abbastanza critici…

Ma nel clero si ravvisa forse un certo appiattimento…

Questo dipende da una certa formazione che i sacerdoti hanno avuto e probabilmente dalla coscienza e convinzione che debbono anche temperare certe spinte, perché il cammino sia equilibrato, non ci siano fughe in avanti.

Per lei il seminario resta il luogo privilegiato della formazione sacerdotale o la comunità locale può esprimere meglio un itinerario formativo e vocazionale?

Se ci fosse una comunità locale, sarebbe veramente il luogo ideale.

Ma tu dimmi adesso, al di là delle parole, comunità ecclesiali che vivono veramente l’esperienza evangelica, l’esperienza degli atti degli apostoli, che sono unanimi, concordi nella preghiera, nella frazione del pane e nella condivisione del pane, ce ne sono? Ci fossero comunità organizzate, strutturate, capaci di essere all’interno delle civitas, punto di riferimento, oasi dove uno trova rifugio, segno di utopie calde, di sogni evangelici, di aperture! La comunità questo deve essere. Io penso che oggi c’è bisogno di seminari, perché preparino dei sacerdoti che siano capaci di costruire delle comunità che vivano profondamente la comunione e che possano diventare anche l’alveo, il grembo materno da cui escano domani i ministeri consacrati.

Attualmente ci sono sì delle comunità ricche di vita interiore, ma altre sono spente, sono scariche. Ora, ipotizzare adesso una comunità come luogo di formazione del clero mi sembra difficile. Certo, il seminario da solo non basta. Ma ci sono anche qui delle esperienze significative. Nel seminario maggiore di Molfetta ci sono delle esperienze bellissime: i ragazzi, ogni sabato e domenica, vanno fuori e stanno in comunità anche lontane.

Il mio discorso era collegato anche all’eventualità di un ministero presbiteriale affidato a uomini sposati.

Io penso che sia inutile discettare su cose che sono bloccate anche da una disciplina, che può essere anche discutibile, ma che intanto c’è. Certo io penso che arriverà un momento in cui i presbiteri saranno chiamati indipendentemente dal loro status; saranno chiamati dal popolo. Verrà il momento in cui saranno degli uomini sposati che verranno ordinati. Non è che adesso siamo come prigionieri di una certa cultura del passato. Tutte le cose avvengono, in tutti i campi, con grande ritardo e lenta maturazione. Attualmente non si vede da parte della chiesa cattolica l’opportunità di cambiare una tradizione più che millenaria.

Ma lei come vede il futuro da questo punto di vista?

Mi auguro… adesso uno per divenire sacerdote deve quasi pagare il dazio del celibato. Uno lo fa anche volentieri, se viene, come dire, stregato, fulminato dalla gioia di servire il popolo di Dio, di annunciare il Regno di Do. Rinuncia, senza tanti problemi, di prendere moglie, accetta di fare questo sacrificio, in vista del Regno di Dio; però, è sempre una specie di tariffa che bisogna pagare. Penso che arriverà il momento in cui questo dazio non si dovrà pagare più. Però rimarrà sempre il carisma del celibato. Ci saranno sempre, io credo, dei sacerdoti che, per il regno di Dio, consacreranno tutta la loro vita, come dice S. Paolo nella lettera ai Corinti.

Ma l’attuale struttura ecclesiale è fortemente clericalizzata. Tutta una comunità (pur così numerose come sono oggi le comunità) dipende da una sola persona. Non c’è ricchezza di ministeri…

Ma penso che ti riferisca ad un tipo di chiesa che sta ormai scomparendo. Ci sono molte comunità che presentano una ricchezza e varietà di ministeri. C’è il presbitero, ci sono i diaconi permanenti, ci sono i ministri; c’è il Consiglio Pastorale, il Consiglio per gli affari ecumenici…

Ma sono delle strutture che tendono a centralizzare il rapporto ecclesiale. Il popolo nella stragrande maggioranza rimane estraneo, lontano dalla vita della parrocchia; molto spesso rimane ai margini dell’ecclesia…

Ci sono le esperienze delle comunità Ecclesiali di Base. Come ho potuto constatare a Ruvo, sono veramente straordinarie. Ci sono i catechisti, ci sono tanti ministeri. Il parroco è solo il coordinatore di tutte le attività. Non pare proprio che si possa parlare di centralizzazione, di accentramento. Il parroco è spogliato di tutto, persino della possibilità di gestire un po’ di denaro, come una volta, quando faceva tutto lui…

Ma le nostre parrocchie, così come sono attualmente strutturate, nell’attuazione degli aspetti fondamentali che connotano una comunità cristiana, parola e frazione del pane, cioè eucaristia e carità, sembrano un po’ lontane dal modello evangelico. Se noi consideriamo le prime comunità cristiane, vediamo che erano di cinquanta, cento, duecento persone. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a comunità di tre, quattro, cinque mila persone, per dire poco. Non è giusto dare a tutti la possibilità di avere ciò che è la chiesa, microstrutturando la comunità parrocchiale; quindi con un ministero più diffuso?

La presenza del presbitero, è una presenza rilevante anche nei primi tempi del cristianesimo. Quindi, la presenza del responsabile, del capo, di colui che è segno, è un fatto fondamentale nella chiesa.

Ma il problema, secondo me, non sta nel decentramento. Queste cose, per me, appartengono al genere dell’evasione. In concreto, quello che è necessario, che è veramente l’acqua che noi tiriamo dal pozzo del Vangelo, giunga a tutti e tutti si possano abbeverare. In misura diversa anche, perché c’è chi ha sete profonda, c’è chi non ha sete per niente; c’è chi con l’acqua vuole soltanto lavarsi la faccia, c’è chi vuole sentire il chioccolare dalla fontana… Poi, rendiamoci conto che stiamo andando verso una situazione di cristianesimo che si riduce; quindi, la civitas non coincide più con l’ecclesia. E quindi, che cosa è importante oggi? Certo l’esperienza delle Comunità Ecclesiali di Base è molto importante. Ma la cosa più importante è che nelle nostre comunità si sperimenti la comunione, la comunicazione. Questo è che manca o è poco presente. Così si cominciano a costruire le comunità. Se non c’è comunione, se non siamo icona della Trinità, le nostre non si possono chiamare comunità ecclesiali.

Allora, il problema è vivere la comunione, sperimentare la comunicazione. Il problema forte, che avverto io, è questo.

Si parla, infatti, di un’organizzazione diversa per facilitare la comunione e la comunicazione. Non bisogna incarnare sempre in modo storico il nostro essere comunità cristiana? Non le sembra che ci sia bisogno di inventare nuove forme istituzionali per veicolare nel nostro tempo il Vangelo?

Ma, più che minare, sbrecciare dalle fondamenta una struttura preesistente, per trovare formule nuove, sono più propenso ad animare quelle che già ci sono, che sono d’impatto biblico. La parrocchia tiene, continua a tenere; e ci sono esperienze di parrocchie, in cui la comunità cristiana è punto di riferimento per le sue scelte audaci, profetiche, per le sue aperture, per il suo vivere con i poveri.

Il decentramento dei poteri, il ministero alle donne saranno questioni importanti; ma il problema più grave è che le nostre comunità spesso sono asfittiche, non hanno slanci, sono bloccate, sono chiuse, fanno fatica ad esprimersi evangelicamente. Il problema forte oggi è una chiesa, per esempio, che si fa povera. Non solo che parli dei poveri e ai poveri, ma che si fa povera, che vive con i poveri, che rende semplice il suo linguaggio. Io, oggi, come vescovo questo problema mi pongo prima di altro. Le questioni riguardanti la diffusione dei ministeri, sono sempre problemi ad intra, nei quali ci stiamo come sclerotizzando un po’. Sono problemi che vanno anche affrontati senza dubbio; ma il problema grosso è che questa chiesa è chiamata ad essere il sale della terra e la luce del mondo e che ancora molto spesso lascia insipidire le minestre della terra e lascia oscure tante fasce del mondo. È necessaria oggi una chiesa che sia coerente, una chiesa che sia di parte, com’è stata Maria, donna di parte; che si schieri, cioè, non per fare da contrapposizione con quelli che stanno in un’altra schiera, all’altra sponda, ma per invitarli con i canti della nostalgia a venire su questa sponda. Una chiesa come Maria del Magnificat. Questo significa “scelta preferenziale”per gli ultimi e per tutto ciò che richiama le beatitudini del Vangelo. Una chiesa che scenda veramente dal suo piedistallo, dal suo palazzo, che si fa popolo…

Se la chiesa deve trasformarsi in questo senso, tutto questo avrà anche dei risvolti di carattere strutturale?

Sì, certamente! Però il problema fondamentale è prendere coscienza che la chiesa è segno. Il segno non totalizza mai la realtà; il segno è diverso dalla realtà. C’è un legame, ma c’è anche uno iato tra la realtà e il segno. L’idea di poter incorporare all’interno di una comunità tutte le persone di una comunità, di una parrocchia, non è evangelica, non è biblica. Il segno è la lampada che tu vedi nel buio della notte. La chiesa questo deve essere: indice puntato verso il Regno di Dio.

Quando uno si fa sopraffare da queste considerazioni, le altre, quelle strutturali, per esempio, passano in secondo ordine; hanno anche la loro importanza; ma io come vescovo penso che la cosa più importante non sia questa. Una chiesa troppo sicura di sé, una chiesa che ha una risposta a tutti i problemi non credo che rappresenti proprio l’ideale evangelico. Noi molto spesso siamo più portati ad incarnare Gesù che stende le braccia e seda la tempesta, e non invece Gesù che stende le braccia sulla croce e attira tutti a sé. Io penso che la chiesa debba vivere le insicurezze dell’uomo contemporaneo, che vive il travaglio di una crescita interiore, che non ha sempre le ricette prefabbricate per tutti i problemi della vita, che sa sostituire al logos la sofia, la sapienza del Vangelo, una chiesa un po’ stolta per il mondo che condivide la follia della croce, le onnidebolezze di Dio come affermava Bonhoeffer. Io la vedo così la chiesa; può darsi pure che mi sbaglio, ma io la vedo così.

In questi anni ha avuto una vasta esperienza della situazione internazionale e della chiesa nel mondo. Come vede la chiesa del futuro? La profezia di Bhülmann degli anni settanta, la terza chiesa alle porte, è ancora plausibile? Come vede la chiesa europea, il cristianesimo occidentale?

Girando per il mondo, in tanti congressi a cui ho partecipato; oppure, andando a trovare i molfettesi che stanno in Australia, Argentina, Venezuela, Canadà, Stati Uniti, ho visto che i problemi sono uguali ovunque. Il cuore dell’uomo è uguale, in qualsiasi luogo della terra. Il cuore dell’uomo è sempre rosso. Può cambiare la pelle dell’uomo: c’è il giallo, il bianco, il nero; può cambiare la mentalità, il modo di pensare da paese a paese, però il cuore è sempre rosso. L’anelito di pace, di giustizia, di solidarietà, di salvaguardia del creato è diffusissimo. Tutte queste problematiche del mondo attuale sono veramente sentite, partecipate ovunque, con le medesime vibrazioni che sperimentiamo noi in Italia. La chiesa, in questa situazione, deve essere il punto di riferimento, non la struttura che totalizza ogni decisione, ogni risposta, quasi che solo ad essa spettasse gestire il problema della pace, per esempio. La chiesa oggi deve sperimentare l’umiltà e la gioia di camminare insieme con gli altri; gli altri di cultura diversa, di mentalità, religione diversa, perché abbiamo tutti le stesse speranze; soltanto che le speranze nostre, di noi credenti, vanno più in la; però dobbiamo camminare con tutti gli uomini di buona volontà. Solo che, ad un certo punto, arrivati alla barriera, alla soglia, al punto che separa le sponde del tempo dall’eternità, magari gli altri si fermano, noi andiamo più in là. Ma abbiamo cantato tutti la stessa musica con strumenti diversi. Gli altri hanno suonato le loro trombe, noi abbiamo suonato le nostre campane che riassumeranno un po’ tutte le linee melodiche che sono state cantate prima. Questo è il compito della chiesa. Allora, la chiesa sarà come una locomotiva che rimorchia.

Non vede una differenza tra chiesa del Nord e chiesa del Sud? Il cristianesimo non muore in Europa?

Non credo. Non mi sento di essere così pessimista. Le chiese si stanno svuotando in occidente, è vero; ma si svuotano gli ambiti, le comunità continuano. Là dove sono riuniti due o tre nel mio nome, dice il Signore, ci sono io. Importante è che ci sia luce, che ci sia questo segno credibile, vero, autentico. Questo è il problema. Non è necessaria la massa. Se la Chiesa è segno, deve fare segno per qualcuno; allora ci deve essere questo qualcuno, ci deve essere questo distacco tra qualcuno e il segno. Non credo che il Signore voglia inglobare tutti quanti nella struttura della chiesa. Ha messo la chiesa perché sia luce. La chiesa è fondamentale per la salvezza di tutti: ecco il significato dell’espressione “extra ecclisiam nulla salus”; ma non è necessario che tutti entrino nella struttura della chiesa. Certamente, senza la chiesa no c’è salvezza. La salvezza del mondo è legata al mistero della chiesa e ci saranno dei fili sommersi, per cui questa salvezza coglie tutti gli uomini, di buona volontà, anche quelli che non fanno parte visibile del corpo sociale della chiesa.

Come vede il rapporto tra Nord e Sud? Qual è il pericolo e la speranza storica di domani ora che il comunismo non c’è più?

Il divario tra Nord e Sud è ancora un problema gravissimo, però il problema più grave è quello che esploderà fra poco, fra il mondo asiatico, India, Cina, Giappone, e il resto del mondo. Il simbolo dell’emarginazione sta attualmente nel rapporto sbilanciato che c’è tra Nord e Sud povero ed emarginato; però, il problema, che esploderà fra poco, è quello del mondo asiatico.

Sappiamo che, in qualità di presidente della Pax Christi, ha promosso una marcia della pace che si svolgerà nel mese di dicembre in alcuni paesi dell’ex Jugoslavia. Quale significato vuole avere questa manifestazione? Da che cosa deriva il malessere slavo?

Questa marcia della pace, che si svolgerà dal sette al tredici dicembre, è partita da una mia idea. Saremo in millecinquecento che invaderemo la Jugoslavia. Dovrebbe essere il simbolo degli eserciti futuri, disarmati, che promuovono strategie di pace; soprattutto portatori di tutte le tecniche per la difesa popolare non violenta.

Oggi c’è una forte presenza di obiettori di coscienza in tutto il mondo. Non sono più uno sparuto gruppo. In tutto il mondo dovrebbe instaurarsi davvero una cultura non violenta. Adesso noi esprimiamo soltanto un segno, un richiamo. Però, quando finalmente nel mondo si sarà affermata una cultura della pace, quando ci saranno le scuole (in alternativa a quelle militari), che già stanno sorgendo, che creeranno questa cultura nelle coscienze e forniranno strumenti per annullare i conflitti allora sarà veramente una rivoluzione copernicana.

Il problema jugoslavo, poi, è qualcosa di molto complesso. Non centrano le faide di religione o cose simili. E’ un’analisi che ho già scritto, ma che non posso ripetere adesso. Sarebbe troppo lungo e impegnativo. Posso però dire, molto in breve, che è una situazione che per certi aspetti richiama quella che è la mafia del nostro paese. Nella mafia uno diventa uomo d’onore quando dimostra di essere capace di uccidere, mentre gli altri stanno intorno a guardare; così tutti questi nuovi popoli trovano nella guerra, nell’uccidere, come una specie di affermazione della propria esistenza, un modo per emergere; pensano di acquistare forza, voce, peso nella comunità internazionale, quando dimostrano di essere capaci di uccidere, mentre il contesto mondiale sta a guardare. Adesso, per dire la verità, la comunità internazionale si sta muovendo, adesso che il conflitto sta minacciando anche l’Europa e il mondo.

Lei è sembrato critico sul trattato di Maastricht, chiedendo che si optasse di più per un’Europa dei popoli che per quella dei mercati.

Su questo problema, riguardante l’unione europea, ho sentito critiche provenienti da più parti, soprattutto dal laicato ecclesiale. C’è, infatti, una polarizzazione intorno ad una nazione emergente: la Germania, il Marco. Ora, in una casa comune, se dobbiamo aiutarci tutti, ognuno deve lasciare qualcosa; non possiamo andare con tutte le nostre masserizie; bisogna lasciare qualche cosa. La casa comune comporta l’accettazione dell’altro, la capacità non solo di dare, ma anche la capacità di accettare l’altro, la sua diversità. Si ha in po’ paura di questo livellamento, di questa omologazione. Si ha paura di condividere. Tutto questo danneggerà le fasce più povere. Le vie di demarcazione tra Nord e Sud si sposteranno. In Italia da Napoli potrebbe spostarsi più sopra. L’Italia potrebbe rimanere penalizzata. E l’Italia, invece, è importantissima, in quanto rappresenta come un ponte proteso sul mediterraneo, trovandosi i fronte a tutti i popoli emergenti che circondano il Mediterraneo: Albania, Grecia, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco. E dovrebbe essere un ponte di civiltà, no un ponte aereo, un ponte di strutture militarizzate.

Cosa ne pensa della situazione economica italiana? Non le sembra che si stia sgretolando lo stato sociale?

Non sono in grado di rispondere. Posso però dire che la chiesa italiana, attraverso la caritas nazionale e altri organismi, ha dimostrato un atteggiamento critico ed è intervenuta ogni volta che è arrivato il momento della discussione della legge finanziaria in Parlamento; perché si vanno sempre più verificando penalizzazioni nei confronti delle fasce più deboli. Ma anche qui, però, più che la Caritas, che è organismo centrale, organismo di vertice della chiesa italiana, dovrebbe essere il popolo ad agire. I problemi dello stato sociale, e non solo questi, dovrebbero scendere dalla base, dovrebbero essere discussi anche negli ambiti comunali. La Caritas, la Pax Christi fanno i loro interventi per dare senso alle questioni; ma se viene a mancare una certa partecipazione popolare, si cambia poco la realtà negativa dei fatti. Anche perché molta gente non sa neppure che c’è una caritas che li difende, mentre i suoi interventi dovrebbero diventare coscienza comune. Quando si discute e poi si approva una legge finanziaria, che stabilisce come vengono spese le risorse finanziaria ed economiche nell’arco di un anno, la gente deve partecipare attivamente alla sua approvazione, intervenendo a livello di comuni, dove si può avere il contributo di tutti, da parte della gente comune, dei professionisti, del mondo ecclesiale. Tutti devono essere attenti alle voci di bilancio e proporre le proprie scelte e valutazioni.

Concludo con un ricordo personale. Un giorno stavamo insieme vicino al porto di Leuca. Il cielo era limpido; il mare calmo e brillante sotto i raggi del sole; le barche che entravano e uscivano dal porto; i pescatori intenti al loro lavoro. Lei mi guardò e mi disse: – vedi tutto questo, che pace, che serenità! Noi ci arrovelliamo, ci inquietiamo tutti presi dall’inquietudine pastorale, ma forse la vita è molto più semplice, molto più umile, più bella… Che cosa erano questi suoi pensieri: la perplessità di una Germania che recalcitra di fronte alla sua drammatica missione o l’ “onum necessarium” di Maria e di Francesco d’Assisi?         

È vero, sì, mi ricordo. Io credo che non ci sia più la voglia di scoprire la santità delle cose. La santità non sta solo nella gente di chiesa. Non l’assorbiamo, canalizziamo solo nei preti, frati o monache, tutti coloro che si aggirano nel perimetro della chiesa. La santità non è assorbita, fagocitata dalle comunità cristiane; la santità è diffusa, è diffusa nel gesto del pescatore che tira le reti e le stende al sole; la santità è diffusa nell’abbraccio che due ragazzi innamorati ridanno; è diffusa nella canzone che ti giunge all’orecchio da una rotonda sul mare; la santità sta nel canto delle claustrali, o nella bellezza delle danzatrici del Bolscioi. Voglio dire che, se noi sapessimo scoprire tutta questa vita, come ricettacolo anche della santità, ci faremmo prendere meno dall’ansia. Noi come chiesa siamo anche segno di questa santità che lo spirito fa fecondare dal basso. E allora, tutta l’ansia che ci prende, per esempio, di portare tutta la gente a messa, di portare tutti ai sacramenti, al catechismo, spesso è eccessiva, e ci dimentichiamo che una volta che il seme è stato seminato chi fa crescere è Dio. E’ certamente un’ansia buona; però, l’essenziale non è questo, è al di là. Se noi sapessimo scoprire la santità della vita, saremmo capaci di accostare il pescatore che tira la barca a secco e dirgli con semplicità: – Come stai? Sei felice, oggi? Sai che il tuo lavoro ha per scopo un progetto… – e diremmo tutto questo non con un’aria magisteriale, ma con atteggiamento umile, di chi condivide la ferialità della povera gente, incarneremo anche noi la semplicità e l’essenzialità di Francesco d’Assisi, che seppe scoprire in tutte le creature la presenza di Dio.

*  articolo recuperato grazie alla collaborazione di Giuseppe Nappi e Laura Cirillo.


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* In fase di aggiornamento…


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info

  1. * Conversazione con Mons. Tonino Bello, a dieci anni dalla sua ordinazione episcopale, Anno Ventesimo, n. 5, 1992.  * anche in Antologia degli Scritti, Mezzina, Molfetta, Vol. 6, Interviste, pgg. 507-522.