Condivisione, gratuità e servizio nella società dell’usa e getta. Lettera a Giuseppe.

1 Caro San Giuseppe,

scusami se approfitto della tua ospitalità e, con una audacia al limite della discrezione, mi fermo per una mezzoretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.

Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.

Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto, che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole.

Vedi: un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili. Vi si parlava di tutto: di affari, di don­ne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte.

Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.

Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano una eternità. Ma, forse, era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera d’artigianato. E a darle vita era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva racchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno o il ferro, ma il tempo. E che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio, fosse quella di addomesticare le ore e i giorni, comprimendoli nel mistero dell’effimero, e creandosi così, per un istinto di conservazione, riserve di tempo negli otri delle cose prodotte dalle sue mani. Il tempo, allora, imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita, se non proprio l’accento della parola.

Le cose nascevano, perciò, lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio. Prima, un atto d’amore, dolcissimo e breve. Poi, nove mesi.

* * *

Oggi, purtroppo, qui da noi di botteghe ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo.

Non si genera più. O meglio, si concepisce solo l’archetipo. Ma senza passione, e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante celerità squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco.

Ed eccoli allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve. Belli, ma senz’anima. Perfetti, ma senza identità. Lucidi, ma indistinti. Non parlano. Perché non sono frutto d’amore. Non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tem­po prigioniero.

Sì, Giuseppe, è proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.

Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tessuto tutto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù per quan­do sarà grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca.

Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba, o a punto ombra. Forse sono fatti a punto in croce.

Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente pro­tette dal fragile tempo di sua Madre.

Povera Maria. A Gesù, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, racchiusa nello scrigno di quella tunica.

Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.

Oggi da noi, anche i ricami vengono fatti in serie. C’è una ditta la quale ha inventato una macchina che fa i punti «perfetti»: e non soltanto quelli! E se tu, dopo aver comprato in un negozio della città di S. Francesco un guanciale disegnato a punto Assisi, la notte pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da una anonima ricamatrice, bella come S. Chiara, ti il­ludi amaramente.

Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. Ab­biamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno.

O Dio, riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme e, perfino, che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore, e lo lasciamo dire solo ai poeti.

* * *

Ma se oggi, qui da noi, di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla.

Vedi, Giuseppe. In questi pochi minuti dacché sto parlando con te, sono già entrati nella bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, un contadino col mastello a cui si è infracidita una doga, un carrettiere col mozzo della ruota che si è sgranato dai raggi.

Da noi, non si usa più. Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto, se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per quale scopo accanirsi nel ridare la vita a un corpo già nato cadavere?

La nostra, la chiamano perciò la civiltà dell’usa e getta.

Al televisore che sta in cucina si è fulminata una valvola? Niente paura: viene messo da parte e sostituito con un altro che ha il videoregistratore incorporato.

Alla bambola, che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico, si sono scaricate le pile? Portala al bidone della spaz­zatura. Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tan­to di certificato di nascita, si sposano, fanno l’amore, e vanno ai campeggi estivi.

Al fucile-giocattolo, regalato al bambino il giorno di Natale, è caduta la vite del grilletto? Presto fatto. Per Capodanno sarà pron­to un mitra, col nastro delle pallottole a doppio carrello. E se il nastro si inceppa, per la Befana ecco un sottomarino lanciamissili con la verifica computerizzata degli obiettivi colpiti.

Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli. Porta via al macero, senza scrupoli. Anzi, no: un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Che fortuna: con una fava prendiamo due piccioni. Intanto, senza spendere una lira, ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidio­si. E poi, diamine! aiutiamo la gente, facendo contento il Signore, il quale ha detto che i poveri li avremo sempre con noi. Un ango­lo di Paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue.

Ma che c’è, Giuseppe? Vedo che ti sei fermato col martello brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto!

Ho capito: quel tuo sguardo vuol dire: «Mi fate pietà. Altro che usa e getta. Valicando davvero ogni limite, avete invertito la frase in getta e usa, visto che siete così abietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di pos­sesso».

Sì, hai ragione, falegname di Nazareth. Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie, traffichiamo perfino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile inverno dell’amore.

E guarda che non ti ho detto tutto, perché ho ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria. Se, infatti, do­vessi raccontarti di certe operazioni filantropiche tenute a battesi­mo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura prova la tua tenuta di uomo non violento. Che vuoi farci! Questi, sì, sono i misteri buffi che dovrebbero scatenare la nostra indignazione, e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio!

* * *

Ma se oggi, qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite, non è solo perché non si genera più, e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza.

Mi spiego. Vedi, Giuseppe, da quando sono entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatte su quel legno denudato dalla pialla!

Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come la luce che trema sul­l’acqua: non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza. E anche ora, mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati dallo scalpello, e ne levighi le asprezze, col medesimo amore con cui la pecora madre asciuga con la lingua l’agnello appena nato.

Poi cicatrizzi le ferite del legno, provocate dal trapano e dai chiodi, con gli stucchi, canforati come unguenti d’Arabia. Vi sten­di sopra il balsamo delle vernici, che impregnano l’aria d’un acre profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di faggio che ora luccicano come uno specchio.

Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo.

Oggi, purtroppo, da noi non si carezza più. Si consuma solo. Anzi, si concupisce. Le mani, incapaci di dono, sono divenute ar­tigli. Le braccia, troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano senza pietà. Gli occhi, prosciugati di lacrime e inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci. Lo sguardo tra­suda delirio. E il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema binario, che regola le aritmetiche del tornaconto e gestisce l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani.

Perciò si violenta tutto.

E non soltanto le cose, il cui spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciar vibrare solo l’immagine esteriore.

Ma anche le persone. Queste valgono finché producono. Quando non ti danno più nulla, le molli, magari con tutte le cau­tele ipocrite della giustizia: gli alimenti alla moglie abbandonata, il mensile per il figlio chiuso in collegio, la retta per i genitori affidati al cronicario.

I poveri vengono blanditi finché servono come gradini per le scalate di potere: dopo, allorché non sono più funzionali ai mi­raggi rampanti della carriera, non li si guarda nemmeno in faccia.

Il corpo, poi, degradato a merce di scambio, è divenuto spa­zio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo. L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna, e, con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità riducendola a una variabile della cupidigia di potere.

Non c’è da meravigliarsi, perciò, che, tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi, Rambo costituisca la testa di serie nelle graduatorie più gettonate della violenza. E tan­to meno c’è da scandalizzarsi, stando così le cose, che il Presiden­te Reagan abbia detto, sia pure scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa fare la prossima volta che dei cittadini ameri­cani verranno presi in ostaggio.

* * *

Vedo, però, che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te.

No. Non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi del­la tua bottega dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tem­po che fu. Anzi, se ti ho dato questa impressione di fuga all’in­dietro, non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari d’un improvviso raptus da regressione: bastano già gli psicanali­sti che abbiamo noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica, impietosa almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di fa­legname.

Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto, per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita. E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come respon­sabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra civiltà dell’usa e getta.

* * *

Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villag­gio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso?

O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte sotto l’arco della sinagoga?

O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre, abbassando gli occhi splendidi per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice?

Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi; e poi tu la notte hai intriso il cuscino con lacrime di fe­licità?

Ti scriveva lettere d’amore? Forse sì; e il sorriso, con cui ac­compagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici, mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna.

Poi una notte, hai preso il coraggio a due mani, sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta, e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata. I fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro».

E la tua amica, la tua bella, la tua colomba si è alzata davve­ro. È venuta sulla strada, facendoti trasalire. Ti ha preso la mano nella sua e, mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.

Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Iahvé. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.

Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio, e di dimenticarla per sempre.

Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore, e le dicesti tremando: «Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria. Purché mi faccia stare con te». Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.

Spero che, dietro quelle assi di castagno appoggiate alla pa­rete, non ci sia nascosto qualche rabbino esperto di teologia, se no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti all’arcisinagogo. Ma io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sul­l’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speran­za. La carità ha fatto il resto, in te e in lei.

Il pane

Ma ora, Giuseppe, cambiamo discorso.

Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza.

Frattanto, colgo il destro di questa interruzione per osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto.

Stavamo parlando di condivisione, ed eccone il segno più classico: il pane.

Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso. Con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio. Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali. Deposto nel fondo di una bisaccia, riconcilia il viandante con la vita. Offerto in elemosina al mendico, gli regala una esperienza, sia pure fugace, di fraternità. Donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di solidarietà. Raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracoloso sull’erba verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione gli riesce bene anche la moltiplicazione.

È proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde quello di frumento, procura­tole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del suo desti­no che l’ha resa Madre del Figlio di Dio.

È per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia. Insegnaci, allora, a condividere.

Purtoppo, in questo nostro mondo, dove cinquanta milioni di persone muoiono ogni anno per fame, il pane, da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra.

Viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso con i poveri.

Ammuffisce nelle credenze degli avidi, non allieta la madia degli umili.

Si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di tutti.

Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è spa­rito sulle mense desolate dell’Eritrea.

Trabocca senza pudore negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della terra.

Viene diviso anche (sì, viene diviso) come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto coi canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia.

Hai sentito mai dire, Giuseppe, che, se i ghiacciai eterni dell’Ermon si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con paurose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventereb­be un mare, il Giordano strariperebbe rompendo gli argini, e l’ar­sura della intera Palestina verrebbe per sempre placata?

E allora, visto che presso l’Altissimo ce ne sono pochi di santi referenziati come te, perché non provochi un fenomeno simile scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane?

E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli esclusi?

Oggi più che mai, vogliamo sperimentarti così quale «protector Sanctae Ecclesiae». Protettore della Chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiali, degli sfrattati, dei prigioneri e degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità.

Il vino

Capisco che, se non mi rispondi, non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contem­plarla un istante.

Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle.

Ogni sera così: lei fa il carico per accendere il forno, e a te rimane il pavimento pulito e sul bancone un pane di granturco per la cena.

Ma, a proposito, ora che siamo rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito?

Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza.

Il bambino che sta per nascere è, sì, un Dio gratuito. Tanto gratuito, che spunterà come rugiada sul vello; ma tu devi attende­re ancora! E anche la culla deve attendere. Anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno del resto (ma stavolta non spetterà a te levigarlo), e in ben altro crepuscolo, saranno cullate le membra del Dio fatto uomo!

Vedo che la notizia non ti turba granché. Hai così tanto impa­rato della gratuità purissima di Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata nep­pure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa. Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive. E continui ad attendere come dono, come semplice dono, da nulla provocato se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: «O cieli, piovete dall’alto. O nubi, mandateci il Santo. O terra apriti, o terra, e germina il Salvatore».

Anche la tua vita si è fatta dono.

Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne sembra appena l’acconto di un avaro.

Un dono così libero, che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua genealogia non pareggiano il tuo diritto di chia­marti padre di Gesù.

Un dono così radicale, che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore.

Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia: contempla solo la voce in uscita.

Tu non chiedi nulla per te, neppure da Dio. Ma non per orgoglio: per sovraccarico d’amore. Dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per la eternità.

Sssst… Giuseppe: un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino.

«Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e debbo rag­giungere, prima che sia notte, la terra di Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. È di quello buono. Bevilo alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio».

Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente gene­roso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi il simbolo della gratuità e della festa.

Dopo il pane, ecco il vino che rallegra il cuore dell’uomo.

Ma… vedo, Giuseppe, che ti accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo d’ac­qua alla fonte vicina.

Io allora approfitto della tua assenza per leggere in negativo quel simbolo della letizia poggiato sul bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di Nazareth non sia stata l’evasione puramente letteraria in un mondo che, con quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire.

Ci vuole, infatti, un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema dramma­tico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultrás ai barboni.

Ma perché mai il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia a un’esistenza troppo faticosa da vi­vere?

Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e ci è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcool!

Sicché in un mondo regolato dai petrodollari, angosciato dai crolli di Wall-Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che flirta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di «sottosviluppo», che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza perfino il rischio delle popolazioni i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale… come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere.

Si amoreggia col fatalismo. Ci si appiattisce in una esistenza che scorre, senza più stupore, senza più spessore, come le imma­gini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spinges­simo i tasti di un telecomando: crediamo di scegliere, e invece siamo scelti.

Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie; gli incontri, frastuoni; e i rapporti umani, orge da lupanari.

L’acqua

Meno male, Giuseppe, che hai fatto presto a tornare dalla fonte. Vedi, in tua assenza, sono stato colto da un pauroso deficit di speranza e ho temuto, addirittura, di dover uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo.

Ma ora che sei rientrato, anche il vino di Engaddi torna a rosseggiare di letizia pasquale e risplende come simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha re­galato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per na­scere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei po­veri, e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno.

Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco in quel boccale di creta. Me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro.

E anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco. Non è acqua inquinata. Le piogge acide, le discariche industriali, e gli additivi chimici l’hanno ancora preser­vata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologi­ca. Dammi della tua acqua, «la quale è molto utile, et umile, et preziosa et casta». Ma dammela, soprattutto, perché, da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici in una sera di tradimenti del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore, che è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e della festa.

E, visto che ci siamo, dammi anche di quel pane. Non tutto. Spezzalo, Giuseppe. Condividilo con me. Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà, prima di morire. E la speranza traboccherà sulla terra.

L’acqua, il vino, il pane.
La trilogia di una esistenza ridotta all’essenziale.

Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviran­no tanto sulla mia strada di viandante un po’ stanco.

E serviranno tanto alla mia chiesa. Anzi, quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere. Ma solo acqua, vino e pane.

* * *

Si è fatto tardi, Giuseppe.

Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino.

Nelle case, le famiglie recitano lo «Shema Israel». E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna.

Di là vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi.

E poi c’è Maria che ti aspetta.

Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da mo­rire.

Buona notte, Giuseppe!

 

Assisi, 42° Convegno giovanile, 30 dicembre 1987


* Trascrizione audio online con integrazione del testo
[su confronto con ogni fonte bibliografica, cartacea e in rete, ad oggi, disponibile].

A cura della  Redazione dontoninobello.info


DTB Channel | Related | AUDIO VIDEO

 

  1. Lettera a Giuseppe, Assisi, 42° Convegno giovanile, 30 dicembre 1987