Carissimi,
è proprio un arrampicarsi sugli specchi voler trovare nei singoli beneficiari della lavanda dei piedi operata da Gesù, la sera del giovedì santo, altrettanti simboli delle diverse condizioni umane sulle quali egli, per impegnarci in un servizio preferenziale di amore, ha inteso richiamare la nostra attenzione?
Ed è proprio fuori posto vedere in Giovanni l’emblema di quel mondo ad alto rischio che si chiama gioventù, e che oggi, nonostante il gran parlare che se ne fa e nonostante il timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale?
Ed è proprio una forzatura concludere che il Maestro, piegato sui piedi di Giovanni, il più giovane della compagnia, è l’icona splendida di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, invitata da quel gesto a considerare i giovani come «ultimi», non tanto perché ai gradini più bassi della scala cronologica della vita, quanto perché ai livelli più insignificanti nelle graduatorie di coloro che contano?
Penso proprio di no.
Anzi, se qualcuno, fuorviato dal chiasso che fanno, dovesse giudicare demagogica l’affermazione che i giovani oggi non hanno voce, mostra di aver frainteso il senso delle tenerezze espresse da Gesù verso quel mondo che ha sempre fatto fatica a farsi ascoltare.
La figlia di Giairo, il servo del centurione, l’unigenito della vedova di Nain, il giovane ricco, il figliol prodigo… sono indice di uno sbilanciamento del Signore nei confronti di coloro che, pur essendo oggetto di invidia struggente, hanno da sempre accusato un deficit pesantissimo in fatto di accoglienza.
Ma torniamo ai piedi di Giovanni.
Come motivo iconografico, ma anche come suggestione omiletica, non hanno avuto molta fortuna.
E dire che la mattina di pasqua, nella corsa verso il sepolcro, si sono dimostrati di gran lunga più veloci di quelli di Pietro, aggiudicandosi, a un palmo dalla tomba vuota, la prima edizione del trofeo «fede, speranza e carità».
Ma al di là dello scatto irrestitibile del giovane sull’affanno impacciato del vecchio, quei piedi non sono entrati nell’immaginario della gente.
La spiegazione è semplice: la testa del discepolo ricurva sul petto del Maestro ha distratto l’attenzione dal capo del Maestro chino sui piedi del discepolo.
È una riprova ulteriore di come, anche nella Chiesa, le lusinghe emotive della teatralità prevaricano spesso sulla crudezza del servizio terra terra.
Che cosa voglio dire? Che noi ci affanniamo, sì, a organizzare convegni per i giovani, facciamo la vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo con l’abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei programmi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servirli, ci si voglia servire di loro.
Perché, diciamocelo con franchezza, i giovani rappresentano sempre un buon investimento. Perché sono la misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all’occhiello del nostro ascendente sociale. Perché, se sul piano economico il loro favore rende in termini di denaro, sul piano religioso il loro consenso paga in termini di immagine. Perché, comunque, è sempre redditizia la politica di accompagnarsi con chi, pur senza soldi in tasca, dispone di infinite risorse spendibili sui mercati generali della vita.
Servire i giovani, invece, è tutt’altra cosa.
Significa considerali poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire furbescamente in anticipo.
Significa ascoltarli. Deporre i panneggi del nostro insopportabile paternalismo. Cingersi l’asciugatoio della discrezione per andare all’essenziale. Far tintinnare nel catino le lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze predicatorie messe in crisi. Asciugare i loro piedi, non come fossero la pròtesi dei nostri, ma accettando con fiducia che percorrano altri sentieri, imprevedibili, e comunque non tracciati da noi.
Significa far credito sul futuro, senza garanzie e senza avalli. Scommettere sull’inedito di un Dio che non invecchia. Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia. Camminare in novità di vita verso quei cieli nuovi e quelle terre nuove a cui si sono sempre diretti i piedi di Giovanni, l’apostolo dagli occhi di aquila, che è morto ultracentenario senza essersi stancato di credere nell’amore.
Servire i giovani significa entrare con essi nell’orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro solitudine, ma ascoltandone il respiro faticoso e sorvegliandone il sudore di sangue.
Significa seguire, sia pur da lontano, la loro via crucis e intuire, come il Cireneo ha fatto con Gesù, che anche quella dei giovani, abbracciata insieme, è una croce che salva.
Significa, soprattutto, essere certi che dopo i giorni dell’amarezza c’è un’alba di risurrezione pure per loro.
E c’è anche una pentecoste. La quale farà un rogo di tutte le scorie di peccato che invecchiano il mondo. E attraverserà la schiena della terra adolescente con un brivido di speranza.
Saremo capaci di essere una Chiesa così serva dei giovani, da investire tutto sulla fragilità dei sogni?
5 marzo 1989
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